Il Papa in Centrafrica, a Bangui, ha detto ai giovani: “Non partite; amate il vostro Paese”. Noi, missionari comboniani a Bambilo, in Congo, siamo impegnati coi giovani, affinché restino al villaggio e trovino una vita che è bello vivere, con semplicità e coraggio. Ci impegniamo seguendo alcune piste: rendere possibili la scuola, la salute, il lavoro, le strade.
In una Assemblea dei Missionari Comboniani in Congo, nel 1980, avevamo considerato l’esodo rurale: i giovani abbandonano i villaggi cercando la città. Anche l’Italia del dopoguerra aveva visto vallate e campagne svuotarsi: tanti cercavano lavoro in periferia. E ci siamo detti: dobbiamo rendere buona la vita nei villaggi per stabilizzare i giovani. L’acqua va sempre in discesa, i giovani vanno dove pensano che la vita sarà migliore. Le famiglie devono trovare scuole per i figli, cure per la salute, smercio dei prodotti agricoli, un po’ di denaro per rispondere ai nuovi bisogni.
Siamo gli unici missionari presenti all’interno. A Bambilo ci siamo trovati nel Congo profondo, dove la vita antica non ha più il sapore buono della tradizione, ma il sapore amaro dell’umiliazione. La vita che cambia li ha lasciati indietro, il movimento non li ha presi dentro, il progresso li ha dimenticati. I giovani dicono: Non vogliamo essere il fungo che muore sotto l’albero dove è nato. Arrivando a Bambilo mi sono guardato attorno: il 60% dei giovani era partito. No, non per l’estero: andavano in villaggi improvvisati di foresta dove era stato trovato l’oro, o andavano in piccole città della regione. Ragazzi senza scuola e senza mestiere, nei quali l’illusione prendeva il posto della speranza. Amare i giovani significa ascoltare i loro bisogni e i loro sogni.
La missione di Bambilo è vasta, la gente è dispersa, la regione è isolata tra foreste e fiumi. Prima urgenza: rompere l’isolamento, aprire un varco alla vita che scorre. Padre Senen della Spagna, e fr. Toni della Valtellina, hanno costruito ponti, reso percorribili piste chiamandole strade. Abbiamo cominciato a costruire delle scuolette, abbiamo messo in piedi un Centro Sanitario, insegnato a fare mattoni, fondato un scuola tecnica che prepara i muratori. I giovani hanno formato squadre di lavoro, alcuni hanno imparato a saldare, a fare i meccanici, i falegnami, elettricisti. Nei corsi serali alcuni hanno imparato a leggere e scrivere, altri hanno dato gli esami come maestri, altri hanno imparato come prevenire e curare le malattie. Le giovani donne hanno imparato taglio e cucito, a lavorare a maglia coi ferri, a riconoscere il proprio valore. In quel Congo abbandonato, adesso dicono con fierezza: “Io sono di Bambilo”. E a Bambilo restano.
In comunità è arrivato un nuovo comboniano, è P. Didier Mbo, congolese. Ha fatto il missionario per sei anni in Uganda, ha accolto la proposta di venire a Bambilo. Il vescovo (Etienne Ung’eyowun, congolese) l’ha incaricato dei giovani. Ha carica vitale, i giovani gli hanno dato fiducia, lui sa che per prima cosa bisogna radunarli, partire dai valori che hanno dentro, far crescere una vita che spinge come gemme a primavera. Mi dice: “Amano la musica, hanno cominciato a imparare la chitarra e a fare il loro festival: cercheremo strumenti e amplificazione”. P Didier è pure incaricato della scuola: vorrebbe arrivare a una scuola superiore di Costruzioni. Il futuro preme, le capanne di fango non bastano più, il Congo di domani cerca efficienza e dignità.
Ci siamo detti, in comunità: “In questa regione isolata e sottopopolata, Bambilo è un villaggio che cresce, domani sarà un centro; le giovani famiglie sono fiere dei loro bambini; ma le mamme vanno al mattino nei campi dentro la foresta e rientrano la sera; i bambini restano lasciati a se stessi, anche se sanno inventare giochi; non sarebbe bello fare un piccolo asilo dove radunarli, tirarli su con canti e danze, prepararli a entrare a scuola?” Il desiderio c’è. Sarebbe anche una strada per educare al valore della vita, alla finezza dei sentimenti. Qui pensano che i piccoli diventeranno utili da grandi, intanto la mamma se ne occupa. C’è poca stabilità, ma cresce il desiderio di offrire ai bambini una famiglia stabile che li rassicura. Partendo dai piccoli arriviamo ai grandi. E si può parlare coi genitori di paternità e maternità responsabile, per poter educare ogni figlio che nasce. Nel mondo che cambia ci sono nuove esigenze, nuove difficoltà, e ci prepariamo insieme. Sì, per ora è solo un sogno, ma fra poco lo tiriamo fuori dal cassetto. Con Jeanne, Franciska, Cécile, potremmo cominciare. Anche in locali di paglia e fango.
Le ciliegie si tirano l’una dopo l’altra e da piccolo ne ho mangiate tante, adesso anche le speranze si tengono per mano, e se ne prendi una ne segue un’altra. La gente di Bambilo vive dei campi, e se vuoi uno sviluppo durevole devi migliorare l’agricoltura. Fanno i campi tagliando la foresta, tutto a mano, e dopo due anni cambiano posto perché il terreno si è impoverito. Non c’è la fame, ma non riescono a vendere; aggiungi che ci metti dentro tanta fatica e raccogli poco frutto. Abbiamo cominciato una nuova avventura; abbiamo coltivato tre ettari secondo le regole dell’agronomia, moltiplicando sementi migliori di riso, fagioli, arachidi; trasformiamo il prodotto sul posto, organizziamo la vendita. Adesso abbiamo un trattore, una macchina che pulisce il riso, un mulino per le farine, presse per olio di palma; sappiamo fare il sapone; cerchiamo di ottenere lo zucchero dalla canna; coltiviamo caffè; e forse altro. La terra è madre e la donna è quella che più ci lavora, a servizio della vita: vorremmo migliorare davvero la condizione della donna.
Raccontata così, pare che noi missionari facciamo tante cose. No, la forza è la gente. Siamo come un fiammifero che serve ad accende il fuoco, ma è la legna del posto che cuoce il cibo. Comboni diceva e ce lo dice ancora: “Salvare l’Africa con l’Africa”, rendere l’Africa protagonista della sua storia, fiera della sua vita. E c’è di più: il dono più bello da condividere è l’esperienza che abbiamo fatto con Gesù, la sua maniera di raccontarci Dio, la sua maniera di raccontarci l’uomo. Magari mi è più difficile da spiegare, perché un mattone si fa più presto a capirlo; però è lì la sorgente del buono della vita. Con Papa Francesco che sa dirlo e mostrarlo, mi diventa più facile condividere con voi questa parte più intima della vita missionaria.
P.Vittorio Farronato