Coronavirus in Zimbabwe: «Ora i nodi vengono al pettine»

Nel paese la prolungata crisi economica ha portato al degrado del sistema sanitario e sociale, rivelando una nazione totalmente impreparata ad affrontare l’emergenza Covid19. Zimbabwe

 

Restano per ora bassi nel paese i casi registrati di contagio dal Covid-19: 18 al momento e soltanto 3 decessi, ma il governo di Harare ha deciso di prolungare di due settimane il lockdown iniziato il 20 marzo scorso.
A sostegno della sua decisione, il presidente dello Zimbabwe Emmerson Mnangagwa ha dichiarato che le condizioni richieste dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per l’eliminazione delle restrizioni non sono ancora state soddisfatte. Si deve inoltre aggiungere che i casi positivi al virus potrebbero essere più elevati se i test, finora ridotti, fossero stati fatti su larga scala.
Come ha reagito la popolazione alla decisione del governo di prolungare la chiusura del paese? Lo abbiamo chiesto a padre Chiedza Chimhanda, superiore provinciale dei gesuiti in Zimbabwe e Mozambico, raggiunto telefonicamente nella capitale Harare.
«La gente ha avuto una reazione mista all’estensione del periodo di lockdown decisa dal governo. Sebbene sia una decisione pesante, la gente ha accettato il protrarsi della chiusura perché sa che l’unico mezzo a disposizione per affrontare la pandemia è la prevenzione, dal momento che le strutture sanitarie e il personale medico dello Zimbabwe sono insufficienti se dovesse esplodere la pandemia del Covid-19.
C’è poi da aggiungere che i rapporti commerciali con il Sudafrica sono molto stretti e il nostro paese è per così dire un’estensione del nostro vicino a sud. Per cui è piuttosto logico che il nostro paese abbia esteso il lockdown in sintonia con il Sudafrica che ha prolungato la sua chiusura fino alla fine di aprile.
Detto questo la maggioranza della popolazione fa molta fatica ad accettare le restrizioni del lockdown. Basti pensare a quanti vivono nelle township (città dormitorio) ad alta densità di abitanti, costretti a stare insieme in case dove non è possibile mantenere le distanze di sicurezza.
In più, con un tasso di disoccupazione dell’80%, la maggioranza della gente non avendo un reddito fisso si arrangia con lavori giornalieri per procurarsi di giorno in giorno il necessario per sopravvivere. Cosicché, se da una parte le misure restrittive hanno una giustificazione sanitaria di prevenzione, dall’altra sottraggono a tanta parte della popolazione l’unica possibilità per campare».      

Come sta rispondendo la Chiesa cattolica alla crisi sanitaria causata dalla pandemia?

«La Chiesa cattolica gestisce 55 ospedali nel paese ed è disponibile a dare il meglio di sé per un aiuto nell’emergenza. Ma è anche consapevole di avere mezzi e personale limitati. A un altro livello, la Chiesa, mediante la Caritas, si sta mobilitando con le parrocchie per offrire pacchi alimentari a famiglie e persone più bisognose. Ad aggravare l’attuale stato di cose c’è il fatto che lo Zimbabwe sta uscendo dalla siccità durata due anni e dalla devastazione del ciclone che lo scorso anno ha colpito alcune zone».
Nella loro lettera pastorale del 2 aprile scorso i vescovi, in occasione del 40° anniversario dell’indipendenza dello Zimbabwe, denunciano che «il paese ha vissuto una graduale recessione economica che ha portato alla chiusura di industrie e aziende, alla fuga di investitori stranieri, alla perdita di posti di lavoro e al declino della produttività agricola, portando ad un aumento dei livelli di povertà. Anche le nostre istituzioni sanitarie ed educative mostrano un graduale e consistente declino».
«Non c’è dubbio – sostiene padre Chiedza – che il progressivo declino dell’economia ha portato al degrado del sistema sanitario e delle strutture scolastiche. E ora i nodi vengono al pettine e ci troviamo impreparati a questa nuova emergenza».
Il superiore provinciale dei gesuiti è anche preoccupato dell’ignoranza a riguardo del Covid-19 e di come si diffonde. «È ancora molta la gente nei villaggi e nelle zone più remote, convinta che il virus non li riguardi perché vivono distanti dalle città dove si sta sviluppando la pandemia.
Da qui l’urgenza di una campagna di informazione e sensibilizzazione per fare conoscere alla gente, a partire da quanti vivono nelle zone rurali, come stanno veramente le cose e come sia necessario per tutti aderire alle norme di prevenzione per evitare il dilagare dei contagi».
da Nigrizia



Data pubblicazione: 21/04/2020

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