Emancipazione della donna in Sudan, un percorso ancora lungo

L’approvazione di un emendamento che criminalizza le mutilazioni genitali femminili è solo l’inizio del cammino, ancora lungo in Sudan, per l’uguaglianza delle donne. Serve un radicale cambiamento culturale e legislativo che sovverta donna sudanprovvedimenti del regime islamista, tuttora in vigore, che ancora relegano la donna a un ruolo subalterno.

 

Il Sudan è uno dei paesi africani in cui la pratica delle mutilazioni genitali femminili, indicate internazionalmente con la sigla Fgm, è ancora molto, troppo, diffusa. Ne sono vittime l’86,6% delle ragazze e delle donne tra i 15 e i 49 anni, secondo una recentissima ricerca sulla questione, il Country profile: Fgm in Sudan pubblicato nel novembre del 2019 da 28 Too Many, un’organizzazione inglese che lavora in 28 paesi africani con l’obiettivo di contribuire alla loro eradicazione.
I dati che riporta sono presi da uno studio condotto nel 2014 dall’ufficio centrale di statistica del governo sudanese e dall’Unicef, conosciuto con la sigla Mics 2014 (da Multiple indicator cluster survey). Dati non aggiornati, dunque, a testimonianza che la questione non era ritenuta di particolare interesse da parte del governo islamista del deposto presidente, Omar El-Bashir.
Durante il suo regime erano in vigore leggi ispirate alla sharia, la legislazione islamica, che stabilivano il ruolo subalterno delle donne nella società sudanese. Secondo il Mics 2014, nel paese il 46% delle ragazze tra i 20 e i 24 anni si erano sposate prima dei 18 anni, il 12% addirittura prima dei 15. Nelle classi d’età superiore la percentuale era anche più alta.
Sempre secondo le statistiche del Mics, il 22% delle donne tra i 20 e i 24 anni aveva partorito quando era ancora minorenne. La legislazione permetteva, e ancora permette, i matrimoni a partire dai 10 anni. Ovviamente sono unioni combinate dai genitori, come del resto gran parte delle altre. Le spose e le madri bambine non frequentano la scuola e questo basta a porle in una condizione d’inferiorità permanente nella famiglia e nella società.
Questa deprecabile situazione vigeva, e ancora vige, in un paese dove, dall’indipendenza, ottenuta nel 1956, gli sforzi per migliorare la condizione delle donne sono stati notevolissimi da parte di illuminati leader e di numerose organizzazioni della società civile.
Famosa nel mondo arabo è l’Afhad University di Omdurman, una università privata femminile fondata nel 1966 da Yusuf Badri, figlio di un ex militante mahadista che aveva dedicato gran parte della vita a promuovere l’educazione delle bambine. Ora è l’università privata più vecchia, grande e autorevole del paese, frequentata anche da studentesse provenienti dagli altri paesi della regione.
Grande impegno è stato profuso negli anni anche da organizzazioni della società civile che hanno chiesto incessantemente il riconoscimento dei diritti delle donne ma sono riuscite solamente a favorire provvedimenti locali, a livello di pochi stati federali, e un profondo cambiamento culturale in alcune comunità.
Nello stato del Red Sea, per esempio, grazie all’intelligente lavoro di Ong locali e internazionali, già una ventina di anni fa esisteva una commissione ufficiale per bandire le Fgm. Capitava di avventurarsi lungo le coste del Mar Rosso, dove risiedono comunità Beja poverissime e isolate, e di incontrare anziani leader che iniziavano la conversazione dichiarando “questa è una comunità dove non si praticano più le mutilazioni genitali femminili”.
Nella zona è praticata la più radicale, l’infibulazione, che nella regione continua a devastare i corpi femminili sulle coste del Sudan e dell’Eritrea, a Gibuti e in Somalia. Presso la comunità vicina, però, non solo l’infibulazione era ancora pratica indiscutibile, ma le bambine non frequentavano la scuola e venivano promesse già all’età di 7 anni.
Un panorama estremamente contradditorio da cui sono emerse molte intellettuali, professioniste e donne capaci e coraggiose, come quelle che sono state in prima fila nella rivolta popolare che ha portato alla caduta del regime.
Non stupisce, dunque, che nella costituzione provvisoria (Constitutional declaration) firmata lo scorso agosto tra la giunta militare e le Forze per la libertà e il cambiamento, al capitolo 14, si parli anche diffusamente dei diritti delle donne e si legga che “Lo stato lavorerà per combattere usi e tradizioni pericolose che riducono la dignità e lo status delle donne”. (The state shall work to combat harmful customs and traditions that reduce the dignity and status of women).
E’ grazie a questo articolo che la scorsa settimana il governo ha potuto decidere di introdurre nel codice penale un emendamento che proibisce le mutilazioni genitali femminili e stabilisce pene severe – fino a 3 anni di carcere – per tutti coloro che le supportano e le praticano.
Il provvedimento ha suscitato plauso nel paese e all’estero. Ma tra le donne sudanesi è viva la convinzione che è ancora lunga la strada per conquistare la parità dei diritti e il rispetto della dignità che loro spetta. Lo ha chiarito una dichiarazione di Hala Alkarib, sudanese, direttrice della rete Iniziativa strategica per le donne nel Corno d’Africa (Strategic initiative for women in the Horn of Africa – Siha).
Nel documento, diffuso il 4 maggio, la Alkarib osserva che uno sviluppo tanto importante potrebbe far dimenticare che nel paese sono ancora in vigore leggi che relegano la donne a un ruolo subalterno. Citata è la legge sullo status personale (Personal status law) che riconosce la validità del matrimonio forzato fin dall’età di 10 anni e restringe la possibilità di prendere decisioni autonome. Sottolineato è un articolo del Codice di procedura penale (Criminal act) che permette di accusare di adulterio una vittima di violenza sessuale.
Mentre la criminalizzazione delle Fgm potrebbe sembrare una incredibile vittoria, “in realtà non affronta le cause profonde della subordinazione delle donne sudanesi che sono profondamente radicate in attitudini misogine”. In particolare, osserva, non ripara i provvedimenti discriminatori nei confronti delle donne voluti dal precedente regime islamista. Va riformato il corpo legislativo per attivare il cambiamento necessario per mettere fine alla pratica delle mutilazioni genitali femminili. 
Senza questo cambiamento legislativo e culturale è molto improbabile che il problema delle mutilazioni genitali femminili venga risolto dalla loro criminalizzazione, conclude Hala Alkarib, e non si può non darle ragione.
da Nigrizia



Data pubblicazione: 06/05/2020

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