Un Mondo Aperto alla Pace: intervista a Nicola Carradori – a cura di Roberto Radice

Nicola Carradori è il coordinatore del Dipartimento di Giustizia e Pace della diocesi di Kotido, situata nella regione nord-est del Karamoja, in Uganda. Mondo Aperto onlus sta sostenendo - dal mese di aprile 2024 - il progetto “Verso la smobilitazione, il reinserimento e la riconciliazione degli ex-razziatori nel Nord Karamoja” – progetto ideato e realizzato dal Dipartimento stesso. Tutti i dettagli del progetto sono disponibili alla pagina dedicata del sito di Mondo Aperto e sul sito del progetto stesso (www.jpd-k.org).


Nicola ci puoi fornire qualche informazione di contesto in merito all’area dove sti sta realizzando il progetto?
Situata nel nord-est dell'Uganda, la subregiondel Karamoja copre un'area di 27.528 km e comprende 9 distretti. La Diocesi cattolica di Kotido, dove il progetto è attuato dal Dipartimento Giustizia e Pace, si estende sul Karamoja settentrionale e comprende i distretti di Kotido, Kaabong, Karenga e Abim. Confina con il Sud Sudan a Nord, il Turkana (Kenya) a Est e la regione Acholi a Ovest. Il Nord Karamoja è la parte più emarginata e impoverita del Paese, sin dai tempi del colonialismo per arrivare fino all’epoca contemporanea. È caratterizzata da complesse dinamiche di conflitto e da alti livelli di povertà, tutti legati a diverse questioni di governance, socioculturali, climatiche e di sottosviluppo. L’area è contraddistinta anche da elevata insicurezza, che ha assunto la forma di razzie di bestiame intertribali, tra i sette gruppi etnici della regione. 
Dopo 13 anni di relativa pace (2006-2019), alla fine del 2019 il Karamoja è ripiombato nella spirale della violenza. Le incursioni armate hanno iniziato lentamente a riemergere. Le restrizioni legate al COVID e le ricorrenti epidemie di malattie del bestiame hanno causato la perdita generale dei mezzi di sussistenza, spingendo così molti giovani pastori maschi a divenire karachuna(giovani razziatori). Questi si sono armati sempre di più, anche grazie ai confini porosi con il Sud Sudan e con la regione del Turkana in Kenya, che permettono un facile transito e accesso a fucili e armi.  Una volta armati, hanno iniziato a darsi ai raid di bestiame intra- e interregionali, che a causa dell'impunità, delle dinamiche di rappresaglia e di ritorsione sono sfuggiti di mano. Il Governo ugandese e le forze di sicurezza non sono stati pronti nel contrastare il fenomeno dei raid, anzi, sono intervenuti con forme indiscriminate di repressione della popolazione, violando anche i diritti umani. Tutto ciò non ha fatto altro che peggiorare ulteriormente una situazione di forte conflitto.
In questo contesto, la maggior parte delle organizzazioni non-governative invece che implementare azioni di peace building (costruzione della pace) e di trasformazione dei conflitti, si sono ritirare per problemi legati alla sicurezza. Le uniche istituzioni rimaste attive sono state il Governo e l’esercito - con i metodi sopra citati - e poi la Chiesa Cattolica, verso la quale la popolazione nutre una profonda fiducia. Questo ha permesso alla Chiesa di continuare a fare sensibilizzazione alla pace e di mantenere una relazione forte con le comunità karimojong.
Quale è stata la genesi del progetto, considerando la situazione che hai descritto?
All’inizio del 2023, tramite un prete locale come Dipartimento di Giustizia e Pace siamo stati approcciati da un gruppo di quattro giovani pastori, che aveva deciso di non compiere e non partecipare più a razzie di bestiame. Ci hanno chiesto di essere supportati nel diffondere un messaggio di pace anche ai loro fratelli, che stavano terrorizzando i territori della Diocesi. Da questo incontro e bisogno, abbiamo iniziato il percorso insieme a questi quattro giovani. Inizialmente i fondi progettuali erano minimi, essendo solo quelli della Diocesi, ma poi grazie al sostegno di Mondo Aperto abbiamo potuto espandere i nostri interventi. Stiamo promuovendo dialoghi di pace e riconciliazione ma, stiamo anche cercando di indagare alcune delle cause di fondo che portano questi giovani a diventare razziatori. Il progetto, oltre alla smobilitazione e al disarmo, contempla anche alternative economiche alla razzia, ovvero attività che possano generare reddito nel settore agricolo e agro-forestale, come l’apicoltura.
Che approccio metodologico state utilizzando nel realizzare le azioni di disarmo, riconciliazione e pace?
Uno degli approcci più interessanti ma mai utilizzato in Karamoja è quello del disarmo, smobilitazione, reintegrazione e riconciliazione. Questo metodo per ora si sta rivelando di successo. I dialoghi di pace intra e intercomunitari, i programmi radio di sensibilizzazione alla pace e il supporto al sostentamento dei giovani e delle loro famiglie danno la speranza in un futuro migliore. Questo permette anche di raggiungere i razziatori ancora attivi, poiché vedono che i loro compagni che si sono disarmati e sono tornati alla comunità hanno delle opportunità concrete per una vita alternativa. Spesso il destino a cui vanno incontro i giovani razziatori è di essere catturati e uccisi dall’esercito.
Che ruolo ha avuto il Governo nel fenomeno terribile delle razzie, che hanno causato negli anni migliaia di morti? 
Storicamente, sin dai tempi coloniali, il Karamoja è stato marginalizzato dai vari governi ugandesi. Nel contesto delle razzie di bestiame, l’esercito ha implementato l’operazione “Usalama kwa Wote”, che inizialmente ha incluso una fase di disarmo forzato, la quale ha avuto effetti disastrosi sulla popolazione locale e ha portato molti giovani innocenti a darsi alla macchia e alle razzie. Questa fase è stata seguita - dalla metà del 2023 – da un’azione di disarmo volontario supportata dall’amnistia presidenziale attiva dal Giugno 2023. Il problema è che, durante la fase di disarmo volontario, il Governo, l’esercito e soprattutto i politici hanno promesso l’impossibile ai razziatori, per incentivarli al disarmo volontario: lamiere per i tetti, computers per giovani che però non sanno nemmeno leggere, sacchi di grano, greggi di capre. Queste promesse hanno fatto crescere molto le aspettative, ma poche di queste sono state effettivamente mantenute. Questo è dovuto al fatto di come, in primo luogo i piani governativi impiegano tempo per essere implementati e arrivare ai beneficiari a causa della lentezza burocratica. In secondo luogo, anche se il governo centrale ha tentato di attivare piani governativi a supporto dei giovani disarmati, molti di questi non li raggiungono a causa della corruzione dirompente. Qui subentra il nostro ruolo, poiché stiamo anche cercando di mitigare le promesse non mantenute, poiché il rischio è che molti razziatori – dopo essersi disarmati – non vedendo realizzate le promesse rischiano di tornare a imbracciare le armi per sopravvivere.  
Attualmente quanti ex-razziatori stanno aderendo al progetto?
Il progetto supportato da Mondo Aperto sta coinvolgendo 240 giovani ex-razziatori, mentre con il finanziamento della Conferenza Episcopale Italiana sosteniamo 293 giovani. I due progetti sono complementari così da ampliare al meglio il nostro operato. Non stiamo parlando di numeri fissi, perché si lavora con una popolazione di pastori semi-nomadi.
Si conosce il numero dei razziatori ancora attivi in Karamoja?
Purtroppo, no. Prima di tutto, i razziatori non fanno parte di gruppi coesi come possono essere gruppi di ribelli. Calcolare i numeri è molto complicato, poiché il potenziale razziatore è chiunque detenga illegalmente un fucile. Conoscere quanti fucili ci sono in Karamoja è impossibile: il Governo non ha il controllo dei confini con il Sud Sudan e il Kenya, dai quali transitano le armi. Quando nel 1979 l’esercito del dittatore ugandese Amin è fuggito, i karimojong hanno razziato le baracche militari di Moroto e di Kotido. Secondo alcune stime si pensa che si siano appropriati di 10 mila fucili, principalmente kalashnikov. Fonti governative e giornali nazionali hanno dichiarato che - all’inizio del 2025 - circa 1.220 fucili sono stati recuperati durante la fase di disarmi volontario. Il problema è che, spesso, un fucile è condiviso da molteplici individui. Un giovane può possedere un kalashnikov ma altri quattro o cinque suoi amici lo usano in prestito. Per cui un fucile va potenzialmente moltiplicato per almeno tre, quattro volte.
Quali sono le difficoltà che state incontrando in questi processi di costruzione della pace, disarmo e riconciliazione? E quali sono le potenzialità che vedi nella popolazione karimojong?
A livello macro, una delle difficoltà è la mancanza di completa di controllo dei confini che non permette di conoscere il numero delle armi e munizioni che entrano ed escono dal paese. In secondo luogo, le strategie usate delle forze armate, durante il disarmo forzato, sono state controproducenti: hanno accerchiato interi villaggi e poi arrestavano tutti gli uomini, chiudendoli nei camion come in una sorta di deportazione di massa. Questo ha instillato paura, risentimento e mancanza dii fiducia della popolazione locale nei confronti dell’esercito. Molti giovani sono fuggiti dai villaggi e si sono dati alla macchia per sfuggire alle rappresaglie dell’esercito e, una volta nella boscaglia, si sono dati alle razzie per sopravvivere. Un altro aspetto è la mancanza di programmi governativi efficaci a livello socioeconomico, specialmente con obiettivi di alleviamento della povertà. La popolazione non può contare solo sulla Chiesa e le organizzazioni non governative. Solo un governo può risolvere una crisi storica di tale portata, ma il mal governo e la corruzione minano ogni possibilità di implementazione di tali programmi.
A livello culturale, i karimojong sono da sempre caratterizzati da dinamiche che mettevano in risalto il ruolo del maschio guerriero e potenziale razziatore. Culturalmente, solo tramite il pagamento di una dote in mucche - acquisite principalmente tramite razzia - i giovani potevano chiedere in matrimonio una donna. Queste tradizioni stanno tramontando e la situazione è in una fase di cambiamento. Inoltre, le pratiche di vendetta erano radicate nelle comunità, poiché nel passato non vi erano forze dell’ordine che potessero supportare le comunità nel recuperare il bestiame razziato: le comunità si arrangiavano da sole. Queste pratiche perdurano anche al momento, proprio per le azioni inefficaci del Governo. Una delle difficoltà maggiori è che i razziatori rappresentano un problema di una magnitudine vastissima: il Karamoja ha un livello di insicurezza relativamente elevato, anche se le cose sono migliorate esponenzialmente. Un’altra criticità è che le organizzazioni non governative – soprattutto quelle internazionali – tendono a seguire la crisi del momento e l’interesse che queste organizzazioni hanno avuto per il Karamoja è stato alto fino a quando il conflitto era più acceso. Dato che ora la situazione in Karamoja è abbastanza stabile e a causa della carenza di fondi nel settore della cooperazione a livello globale, questo ha fatto si che molte organizzazioni non governative si siano ritirate, proprio nel momento in cui bisognerebbe accrescere il numero di operazioni di peace building. Noi siamo una delle poche organizzazioni rimaste ad operare nel tempo in questo territorio.
Infine, vi è una mancanza di coordinamento completa tra le organizzazioni non governative, che spesso sono auto-referenziali e “tirano acqua al proprio mulino”.
Tra le potenzialità che vedo è che i karimojong sono una popolazione molto resiliente: non potrebbe essere altrimenti per vivere qui. Abbiamo l’opportunità di lavorare con persone molto tenaci, che non si lamentano nonostante le condizioni di vita siano molto instabili. Quando cominciano a fidarti di te, ti seguono e credono in ciò che si può realizzare insieme. Noi come organizzazione, nonostante le risorse siano limitate, godiamo di una fiducia e di un supporto delle comunità locali che nessun’altra organizzazione ha. Noi abbiamo investito molto tempo nel forgiare relazioni significative e non siamo venuti qui con i soldi e basta. In Africa tutto passa dalla relazione. Come dipartimento siamo andati a incontrare i razziatori nei loro luoghi di vita nella boscaglia, mentre erano ancora armati. Abbiamo mostrato loro che eravamo disposti a parlare con loro nonostante fossero armati, senza denunciarli alle forze dell’ordine: questo ha fatto capire loro che effettivamente noi volevamo supportarli nell’uscire dalla loro condizione di razziatori.
Che messaggio arriva dal Karamoja sulla via della pace?
Se gli interventi umanitari sono sviluppati in modo partecipativo con le comunità locali, non ci sono limiti al potenziale nel creare un impatto positivo sulla vita delle comunità stesse. C’è una grande e visibile voglia di cambiamento: gli ex-razziatori, le donne, le persone e anche i criminali più efferati vogliono mettersi l’insicurezza alle spalle e vivere in pace. 
 
 


Data pubblicazione: 04/11/2025

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